Lettere da Lisbona #3

L’ho scoperto solo il quarto giorno: a colazione ci sono i pancake. Ed io, che fino ad allora mi ero accontentato di un semplice toast al prosciutto, non jo potuto far altro che approfittarne.
Cosí dopo tre pancake, un panino e due bicchieri di spremuta posso finalmente iniziare con l’energia sufficiente anche questa giornata.
Oggi la meta prescelta è il quartiere di Alfama, uno dei più antichi e meglio conservati di Lisbona. Bisognerebbe assolutamente provare cosa significa perdersi in quelle viuzze. Tipo, arrivare nel punto in cui comincia il complicato dedalo di stradine e smettere di usare la mappa o il cellulare per orientarsi.
Io l’ho fatto. La mappa mi è caduta dalla tasca dei jeans camminando, e l’ho persa; il cellulare era senza connessione internet.

Perfetto. Perso.
A questo punto non posso far altro che affidarmi al mio pessimo senso dell’orientamento, sviluppato quanto la vista nelle talpe, oppure seguire quelli che mi sembrano turisti più preparati.
Per un po’ scelgo la seconda ed inizio questo viaggio alla scoperta dei vicoli più caratteristici di Lisbona in compagnia di due signori, marito e moglie, che parlano portoghese.
Solo dopo un po’ mi accorgo che, seppure nella lingua locale, anche loro si chiedono dove diavolo siano finiti. Ok, è il momento di fare da solo.
Salgo, scendo, arrivo fino in fondo a strade senza via d’uscita, torno indietro, contemplo archi e finestre che mi ero lasciato sfuggire.

Dopo un’oretta abbondante in cui non faccio altro che passeggiare dissimulando il mio smarrimento, spacciandolo per un’escursione programmata; dopo aver scambiato numerosi sguardi enigmatici con le vecchiette sedute sugli usci; dopo aver rischiato per un paio di volte di rompermi l’osso del collo su delle scalinate ripide come piste da sci…finalmente sbuco in una piazza.
Non piena di gente. Di più. E non solo persone, ma anche auto, e furgoni, e gazebo, e lenzuola stese per terra con sopra adagiata una quantità e varietà di merci di tutti i tipi. Un enorme mercato in cui il numero degli oggetti esposti fa a gara con quello della varietà umana presente nella piazza.
Ci sono giovani che vengono oggettistica da collezione, dischi e vestiti vintage. Anziani che propongono cimeli della guerra, vecchie collezioni di monete e cartoline. Uomini di mezza età la cui attività spazia dall’antiquariato al vestiario, dal cibo ai libri. E ci sono anche tanti tipi loschi che non la smettono di proporti erba mentre tu ti sei solo avvicinato per chiedere il prezzo di un magnete da attaccare al frigorifero.

Il mercato è davvero fornitissimo e sia l’appassionato di antiquariato che l’antropologo avrebbero mille ragioni per passarci l’intera giornata. Io invece dopo aver comprato i suddetti magneti, posso tranquillamente fuggire da questo sciame ronzante.
Il problema successivo? Tornare alla base. Mi toccherà perdermi di nuovo, per cui assumo la mia già testata espressione da esploratore impavido. Stavolta peró non é cosí male, e riesco a raggiungere in pochi minuti la strada che costeggia il fiume Tejo. Di lí arrivare a Praça do Comercio é un gioco da ragazzi.
Tuttavia, é risaputo che i regali inattesi sono sempre i migliori…quindi eccola lí la rivelazione che completa la mia giornata. Me ne ero colpevolmente dimenticato, ed eccolo lí adesso pararmisi davanti con la sua faccia ed i suoi occhiali enormi.
Josè Saramago mi guarda dalla facciata di un palazzo (Casa dos Bicos, ndr) che uno sguardo frettoloso rischi di ignorare.
La giornata si chiude cosí con un misto tra euforia e rispetto, tra i libri di questo gigante della letteratura e le foto della sua vita privata che mi regalano una dimensione molto più umana di quello che per me é un dio con l’anima fatta d’inchiostro.
Ci passo ore lí dentro, in quell’edificio che la Fondazione Josè Saramago conserva come uno scrigno in cui l’anima dello scrittore aleggia forte e prepotente. Al terzo piano c’è una libreria, mi avvicino agli scaffali e non fatico molto a trovare uno dei miei libri preferiti, uno di quei capolavori che restano ineguagliabili per sempre.
Le pagine che sfoglio velocemente causano uno spostamento d’aria che avverto leggero sulle guance: eccolo, il mio passo preferito.
È un segnale, un invito, un ammonimento, la storia dell’uomo e le risposte alle sue millenarie domande, il tutto concentrato in poche semplici parole.

“Tutto ciò che potrebbe succedere, succederà, è solo questione di tempo, e se non siamo giunti a vederlo finché eravamo da queste parti, sarà stato solo perché non abbiamo vissuto abbastanza.”

(J. Saramago – Le intermittenze della morte)

Torno all’ostello sorridendo, con i sogni che litigano tra loro per farsi spazio nei miei occhi.

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Lettere da Lisbona #2

La sveglia del cellulare oggi mi sembra meno fastidiosa del solito. Apro gli occhi e subito me ne accorgo: c’è il sole!
Finalmente, dopo giorni di pioggia, il fine settimana si preannuncia splendido.
Mi vesto velocemente, afferro un panino dal bancone dove viene servita la colazione e cinque minuti dopo sono già per strada.

Ho sbagliato a mettere il piumino, il sole scalda per davvero. Lo tolgo e lo metto sotto il braccio, le mani in tasca mentre attraverso la piazza su cui si affaccia la stazione di Rossio.
Tanta gente in giro, tante lingue diverse, tante facce meravigliate. Lisbona è una città che non ti aspetti. Non è una meta ambita, non è la città preferita dagli italiani all’estero, non è il centro di nulla, non è.
E allora perchè non riesco a smettere di incantarmi mentre cammino? Sento il cellulare vibrare nella tasca dei jeans, ma lascio perdere. Risponderó dopo.

Mi infilo in questa strada lunga, dritta, quasi infinita, la Rua Aurea. C’è il sole che ci cade dritto sopra e rovescia secchiate di luce, facendola scintillare quasi come un fiume d’oro fuso. Là in fondo si intravede il fiume ed è lí che voglio arrivare.
Un palazzo dopo l’altro, particolari facciate ricoperte di mattonelle smaltate: spettacolari geometrie, incredibili addobbi sul cemento spesso troppo triste delle città. Ogni finestra, ogni balcone è un quadro incorniciato da queste splendide tessere colorate. Come in un museo cammino facendo attenzione ad ogni particolare, per non perdermi nulla.
E come in un museo, alla fine arrivo all’uscita.
Splash.

È un tuffo.
La via sfocia in una piazza immensa, una sorta di bagno di luce, e aria, e immenso. Oltre la piazza il fiume disteso come un gigante, che soffia su di essa tutti i suoi odori, i suoi profumi segreti.
Praça do Comercio sembra fatta apposta per ridimensionare le persone e farle entrare in un’altra dimensione, in un altro tipo di rapporto con la realtà che le circonda. Se nella Rua Aurea avevo camminato assorbendo il fascino della città, qui mi sento totalmente assorbito.
Un punto nello spazio. Piccolo ma non inutile. Sono parte di qualcosa, la mia esperienza è parte di un viaggio collettivo. Ne trovo traccia nelle persone che a qualche metro da me scattano rumorosamente una foto dopo l’altra. Nel signore anziano e un po’ gobbo che vende castagne arrostite in un angolo della piazza. Nel ragazzo ritto in piedi, dall’altro lato di questo campo di luce, che si ferma un attimo per guardarsi attorno; poi tira fuori una mappa dalla tasca posteriore dei pantaloni. Un’occhiata e prosegue.
Sono io? Si, sono io.

Il bordo inferiore della piazza confina col fiume grande quanto il mare. E una scalinata si immerge nell’acqua, un gradino dopo l’altro, tra due colonne di pietra che sembrano poste all’ingresso di un mondo nuovo e fantastico.
Scendo sui gradini, fin quasi a finire con i piedi nell’acqua. Passano due barche a vela, in lontananza una nave mercantile è ormeggiata nel punto in cui il fiume si mescola col mare, mentre ci fa all’amore.
Verso di me avanza un battello turistico, che fa la spola tra una sponda e l’altra di questo fiume che si dilata per somigliare ancor piú al suo amante d’acqua salata.
Ho tutta la città, e forse un intero continente, alle mie spalle. E tanto, ancora un’immensità davanti a me. La sensazione di essere al limite, di camminare sul confine tra due mondi, entrambi possibili, e ognuno giusto, a suo modo…mi fa scendere una lacrima. Scende veloce sulla guancia e cade giú. Ne avverto il ticchettio sulla pelle scura della scarpa destra. Un attimo dopo è un’onda piú forte delle altre a sfiorarmi i piedi. E la mia lacrima viene catturata dal fiume che subito si ritrae, vittorioso.
Se la porta via, e poi con un gesto furtivo la passa al mare che presto la nasconde negli abissi.
Dove sarà adesso? Ed io, dove sono? Ancora sul limite, oppure già in viaggio?
Una nuvola, di passaggio, spruzza ombre sull’acqua tormentata e poi irrompe sulla piazza.
È tempo di infilarsi nuovamente il giubbotto.
Mani in tasca, imbocco la strada alla mia destra che costeggia il fiume, mentre continuo a guardarmi attorno.
Non ho ancora smesso di cercare. Di cercare di capire.

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Lettere da Lisbona #1

Mi ero sempre chiesto, sfogliando gli opuscoli turistici di Lisbona, perchè fossero cosí famosi gli “ascensori” della città lusitana, che permettono di raggiungere punti panoramici e strade suggestive del centro storico cittadino.
Adesso lo so, dopo essermi imbattuto in una strada che definire ripida è non solo un eufemismo, ma una presa in giro. Arrampicarsi a piedi è una pazzia, ed io ovviamente l’ho fatto. I polpacci sembrano essere sul punto di scoppiare una volta arrivati in cima. Ma è oltremodo soddisfacente, alla stregua di una scalata. E la vista poi, è semplicemente imperdibile.
Il Mirador di Santa Luiza ripaga di tutte le fatiche affrontate per arrivarci: in realtà ci si puó arrivare comodamente con uno dei tram elettrici di cui la città di Lisbona è piena. Ma per un viaggiatore squattrinato, spendere 2,85€ per un giretto di pochi minuti, per quanto suggestivo, è forse troppo (basti pensare che a Lisbona per la stessa cifra si acquista un litro di birra nei locali della movida).
Meglio salire a piedi e godere delle bellezze inattese che si incontrano ad ogni curva della strada. Una per tutte, la Catedral do Sé, chiesa imponente che domina il quartiere.

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Il panorama che si puó ammirare da Santa Luiza è di quelli che si è soliti ritrovare poi nelle cartoline.
La città che segue il pendio e scende mollemente verso il mare fin quasi a caderci dentro, e una grande distesa di tetti con le tegole rosse, campanili, edifici dipinti con tonalità pastello, giallo, rosa, azzurro, verde, quasi tutti decorati con le bellissime piastrelle di ceramica smaltata (“azulejos” nella lingua locale).
Funziona così, alla fine: arrivi in cima stremato, maledicendo; poi ti riempi gli occhi di tanto splendore e torni indietro più leggero, benedicendo.

Si, direi proprio che Lisbona ti mette alla prova: se vuoi veramente scoprirla, davvero entrare nell’essenza di una città che non si scopre subito e con troppa voglia, devi superare delle prove. Salire, scendere, fare attenzione ai particolari, ai segnali, entrare nei suoi vicoli segreti con l’umiltà di chi entra nella casa di un rispettabilissimo sconosciuto.
Lisbona è così, resta sempre sconosciuta, e poi alla fine ti accorgi di provare verso di essa un amore difficile, tortuoso, in apparenza ingiustificato. Di quello veri, insomma.

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Domenica pomeriggio.

Effettivamente, a tutti piacciono le parole. Riempirsi la bocca è sport olimpico, parlare troppo un allenamento quotidiano, ferire uno spiacevole ma necessario effetto collaterale. Non sto qui a dire che si debba pensare prima di parlare, che già chiedere di pensare e basta sarebbe chiedere troppo. In alcuni casi, che dico, quasi sempre. Ma se la parola non è figlia di un’idea, se è slegata da un pensiero e vaga come una bastarda dentro la nostra bocca, e poi fuori…e chissà dove. Fantastici vestiti fatti di lettere luccicanti, e sotto manichini di plastica, magari crepati, magari maleodoranti. Se la parola non riflette qualcos’altro, è solo un suono vuoto, un’articolazione sonora che Dio solo sa quanto vale, al pari dei versi degli animali. Non do dell’animale a nessuno. Questo sia chiaro, ma di una chiarezza poco meno che assoluta. In verità, vi dico…che i versi degli animali sono pure utili, penso al mio cane che abbaia alla vista di un gatto, o alle famosissime oche del Campidoglio. Ma le oche ci sono ancora oggi, stupido me, solo che non sono più segnale d’allarme, solo click di scatti, autoscatti, autopromozioni, flash accecanti. Il punto è che gli animali sono utili, ma quasi tutte le parole no. Cosa è utile? Io mi ritengo inutile per principio, ma so cosa è utile. Un gesto. I gesti sono utili, sono veri, li tocchi (cioè, il toccare stesso è già un gesto). E ad un gesto ne corrisponde un altro, mentre alle parole spesso no. Le parole costruiscono e accendono; o spengono e radono al suolo. Ardono e poi spariscono, senza macerie, se non un’eco lontana. Si potessero mangiare, i gesti, sarebbe perfetto. O forse moriremmo ancor più di fame? Ancora più di quanto non si muoia a causa delle parole? Il problema della vita è questo, sai sempre cosa è meglio, in ogni momento…ma poi non è per sempre, se un attimo dopo quel meglio diventa peggio di qualcos’altro, o persino la cosa peggiore in assoluto. É per questo che ci fidiamo poco, del giudizio degli altri e del nostro, di riflesso. Se le parole sono vuote, ed i gesti pochi e leggeri, allora resta ben poco. Armatevi di parole, ma ricopritevi di gesti. Emettete suoni e modellateli con le mani. Lanciate richiami ed afferrate ciò che arriva, di rimando. Se invece di pensare che “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”, tutti capissero che “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti gli altri”, il mondo sarebbe certamente un posto migliore.

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Somewhere only we know

Once somebody said that “good things come to an end” and I always knew it. The problem is that I never really realized it before living it on my own.

Now that even my second trip in Brazil is concluded, I can say that this one and the first one are both part of the same experience, the most important travel I ever did in my life.
And I’m not talking about taking planes and carrying tens of kilos of baggages with me all around. When I say “travel” I mean a lot of different things, that are extremely difficult to resume in few words or text lines.
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Anyway, this experience pushed me breaking lots of limits and accepting challenges, so…that’s my goal for today, write about the last months and make it clear how meaningful and life-changing was all this.

Let’s imagine a hand: five points, one for each finger, that can show which are the aspects of my life affected by this travel.

Family
All we have one: large, small, crazy, unique. Family is our shell, the “place” in which we born and grew up. It’s almost impossible to imagine our lives without them, without these people that we call mom, dad, brothers and sisters. Although, I learned that it happens to find a new one, that not replace the first, but becomes a second family. How lucky are we? Two families, based in different sides of the world, two groups of people that love you as a son, doesn’t matter if there are blood ties or not. Living for weeks in their houses, sharing happy (and sad) moments with them, that’s what happens in a family, and that’s what happened to me in Brazil. I know I have two families now, and this is pretty awesome.

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Friends
I always had problem in making new friends, since I was a child. Shy, quiet, not really good in playing sports…all these things made it difficult to me to become friend with other children. Years passing, things changed: there was a moment, I remember, in the high school when I understood that something was wrong. Find people to share the best moments of your life is a must. Then, you understand that friendship is the essence of life, and friends are the hands that hold you and help you going ahead, everyday. What would have I done without my friends? Almost nothing I did in my life. That’s the point: i can’t imagine my life without them and each day, when I wake up, I have a reason to smile because of this. Brazil gave me lots of friends, lots of special people, hundreds of hands, and hearts, and minds ready to be by my side every time I needed.
I have no more words to explain what friendship meant to me in this experience, so…my dear friends, maybe you should help me in doing this!

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Work
Children are my teachers. And I’m not talking about their role in learning my Portuguese, rather about the impact they had on my life. Their stories, their smiles, their jokes…how can I ever forget all this? Helping them in such a beautiful way, teaching them about human rights and social problems…it’s for sure on of the things that make me proud to be who I am. Sometimes when I’m alone, I smile thinking about their smiles: it’s like a chain of smiles, that is still alive in my head and will always be. This is what life should be, a chain of smiles. Children taught me about this.

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World outside
My vision of the world outside it’s not the same since I came back. Something changed, maybe everything. World is different, or am I? Don’t need to answer this question. I just understood that it took three months to change my 24-years-old idea of it, so…how weak was it? No more limits, no more fears, no more impossible things. Is that real life? The point is that once you recognize it, there’s no way to come back.

World inside
Yeah, this is kind of a problem when you come back home. The world changed (ok, your idea of it did), you changed, and then you perceive that it’s not easy to explain it to other people.
In the first days after your comeback, you meet people you know, and they always ask the same: “So, how was it?”
And you have lots of things to say, ideas to show, new discovers to illustrate, but soon you have to admit that it’s not so easy to do it. Who didn’t try this, who didn’t live the same experience you lived, who didn’t face the same challenges of you…how can he really understand what you’re talking about? That looks like a wasting of time. So your answer it’s kind of boring: “oh, awesome…”. Stop.

I said, good things always come to an end. Sad, but true. I’m here, in Italy, thinking about my former Brazilian life…and it’s in that moment I understand the truly meaning of the word “saudade”. Many people don’t believe it. According to them, it can take a few seconds to fall in love with an another person… But three months are not enough to do the same with a whole country. Ok. Maybe they’re right. And I’m wrong. What’s the big difference between me and them?
I know that life is a big surprise, a book where I can write all what I want, and that “impossible” is just a word in our heads. They don’t know about it.
They don’t.

Lucky me.

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Addio, torno domani.

Rio mi lascia cosí come mi ha accolto: grigia, un po’ antipatica, sorprendentemente fresca (e parlo del clima).
È lei a lasciarmi? O la lascio io?
Sono triste mentre chiudo la valigia, come quando uno va via di casa per motivi che vanno oltre la propria discrezione, motivi necessari eppure inspiegabilmente crudeli.
Vivo male i distacchi, odio gli addii, non vado matto per gli arrivederci, ho bisogno di tempo, tanto, per elaborare le perdite.
Per questo sono triste, lasciando questa città, questo luogo incantato.
Rio è stata una scoperta, uno di quei regalo che ricevi con aspettative altissime…e tutti sappiamo quanto è difficile confermarle, le aspettative. Questa città fa eccezione. Ha una fama che la precede, racconti che fanno il giro del mondo e raggiungono anche chi non ha nemmeno mai pensato di andarci.

Come fa una città ad essere tutto questo?
Arrivo a Rio, ricevo questo regalo, lo scarto con un po’ di apprensione, ho paura. E se ne restassi deluso? Troppe volte è successo, la mia fantasia è la mia migliore amica e anche la maggior fonte di delusioni della mia vita.
Sono uno scrittore, è cosí. O solo un sognatore, che poi è lo stesso.

Queste nuvole grigie non mi piacciono, tetto piatto su una città che non conosce linee regolari. Due giorni e vanno via. Le odio, scappano. Tornate tra qualche giorno!

E gli occhi si riempiono di meraviglia, a volte mi soffermo a pensare, per essere sicuro che io stia assimilando tutto, di non essere il solito osservatore distratto, immerso fisicamente nella realtà e con occhi, testa e cuore da un’altra parte.
Peró, mi accorgo che è impossibile. Non c’è un’altra dimensione, dove io e la mia parte più evanescente possiamo andarci a rifugiare. Rio è tutto, è ogni dimensione, tutte le realtà immaginabili messe assieme, tutte le espressioni di gioia del mondo condensate tra i chilometri di spiaggia, le isole da una parte e le montagne dall’altra.
Ho i brividi ad ogni tramonto; forse è il freddo, ma quella luce incredibile che esplode nel cielo e mi avvolge? Quell’orgasmo cromatico che si sparge nel cielo, sopra la mia testa, e fa pace con la riluttanza del mio animo?
É sicuramente a causa di questo. Ho i brividi e mi scopro. Mi sconvolgo. Assimilo.
Elaboro una perdita. Forse due. Ho intravisto il Paradiso ed un paio dei suoi abitanti. Mi commuovo ma non piango. Mi piego e guardo all’insú. Mi capisco.
Il sole scende dietro le montagne, va a letto, va a sedurre altre terre, a far l’amore con altri occhi. Addio, torna domani. Mi bacerai ancora?

Cose che ho perso e poi ritrovato. Dov’erano? O meglio, dov’ero io? Ho trovato tutto a Rio de Janeiro. I fiori dei tempi andati, storie e volti che pensavo di aver dimenticato troppo in fretta, rughe d’affetto, mani andate e parole mai schiuse.
Uno, due, tre tramonti. Sette albe. Migliaia di persone. Miliardi di immagini, e qualche certezza in piú.

Basta, é tempo di andare. Addio, torno domani. Anzi no. Peró torno. Quante cose ancora tieni nascoste per me?
Scarteró tanti regali, resteró deluso ancora troppe volte, ma non potró mai dimenticare quella volta in cui mi hai baciato, di luce, ed io per poco non ho pianto.

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Tramonto di Ipanema

“Cerchiamo cose, e di rado le troviamo. Consumiamo strade, senza voglia di percorrerle. Cantiamo canzoni, che non abbiamo scritto. Diciamo parole, che non ci emozionano. Guardiamo occhi, che mai ci osservano. Baciamo labbra, stringiamo corpi, sfioriamo gambe che sono tutto fuorché carne.
Creiamo sogni e li rincorriamo. E se poi vanno a finire oltre l’orizzonte? Ci sediamo ad aspettare, domani torneranno.”

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L’abitudine di sognare

Cammino verso casa. É insolitamente silenziosa questa sera la strada in cui abito, le auto sono poche, la gente non gira a piedi a quest’ora, è troppo pericoloso.
Una delle cose che mi piacciono meno di questo paese è proprio questa: non poter girare liberamente all’ora che mi pare, per strada. Facciamo che sono le 22. Facciamo che dopo le 21 è poco raccomandabile camminare soli. Facciamo che abito in un quartiere periferico e se non voglio prendere un taxi, devo tornare a casa adesso.
In realtà è già un po’ tardi, ma è colpa della partita. Sono stato a casa di amici per vedere Brasile-Germania, semifinale della Coppa del Mondo.
C’è uno strano silenzio per strada, anche se poi tanto strano non è. Il risultato della partita ha ammazzato l’entusiasmo, distrutto i sogni. Sento in lontananza scoppi ripetuti, qualcuno ha deciso che una volta comrati, i fuochi artificiali vanno utilizzati.
È stranamente piatta questa notte brasiliana, non è cosa comune in un paese come questo dove la gente si trattiene sulle soglie delle case fino a tardi, per prendere un po’ di fresco, per rilassarsi dopo una giornata di lavoro. Se la tristezza avesse un odore, sarebbe proprio questo: l’aria salmastra del mare sembra essersi fermata sulla riva dell’oceano stanotte e al suo posto c’è qualcos’altro, meno affascinante, un’aria stantia, di luoghi lontani e poco affascinanti.
Mi sento quasi sicuro, però, stasera. Saluto con un gesto della mano il guardiano della stazione di carburante che devo attraversare per tornare a casa. Lui mi risponde, ed io attraverso, ringrazio. “Boa noite”, “Boa noite pra vocè”. Basta, parlare di qualcos’altro sarebbe rigirare il coltello nella ferita. Se ne torna sulla sua sedia, probabilmente penserà a quello a cui stanno pensando quasi tutti i brasiliani adesso.
È stato un incubo, questa è la verità. Non come quelli che poi ti svegli, e svaniscono, e tu tiri un sospiro di sollievo. Non c’è nessuno lì a tirarti un pizzico, è tutto reale, è una tragedia vera. La tivù fa passare una sequenza di immagini relative ai tifosi disperati nello stadio. Poi è la volta dei fiumi di lacrime davanti ai maxischermi nelle piazze del paese. Prendo il telefono dalla tasca (ok, non è sicuro farlo per strada, ma ho dato un’occhiata al tragitto che mi separa da casa mia e non sembrano esserci pericoli) e apro l’applicazione di Facebook: è una lunga sfilza di post ironici sulla squadra, battutine sulla Germania, stati disperati, analisi tecniche e tesi personali su quanto accaduto. É come una grande terapia di gruppo ed ognuno, quando è il suo turno, si alza nella piazza virtuale e dice la sua. Ma la storia è sempre quella, tristezza, lacrime, rabbia.
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Ancora un bagliore nel cielo, ancora un fuoco d’artificio che esplode. Non sono i ricchi che li hanno comprati, so da dove vengono e non sono i quartieri benestanti della città. Non so quanto avranno speso per questi fuochi, fatto sta che dei soldi ce li hanno spesi. Si fa di tutto per sostenere la propria squadra, anche comprare cose che normalmente si considerano superflue, inutili. Esplode, edil rumore forse sveglia qualcuno. Ma quanti stentano ad addormentarsi stasera?
La gente è tornata con i piedi per terra, il sogno è andato, il paese non vincerà una Coppa che ha organizzato facendo tanti sacrifici, lottando strenuamente. Da quando il torneo è iniziato, la gente ha dimenticato i motivi delle proteste anti-mondiali ed ha dato il via alla festa, accogliendo i turisti stranieri come meglio sa fare. Sono le persone più accoglienti che abbia mai conosciuto, questi brasiliani, e fanno di tutto per far capire a chi viene nel paese per la prima volta che se si sanno superare le evidenti difficoltà della vita di tutti i giorni, questo è il posto migliore al mondo in cui vivere, il più felice. Miliardi di reais spesi per organizzare un campionato di calcio e poco altro.
Dall’altra parte una fetta importante della popolazione che ancora annaspa e non soffre la fame perchè i programmi assistenziali del governo sono piuttosto generosi; ospedali pubblici decrepiti e cliniche private che sono quasi inaccessibili per chi non ha un’assicurazione sanitaria; mezzi pubblici datati e malfunzionanti; strade dissestate e pericolose; poliziotti corrotti e gran parte della città che definire insicura è un eufemismo; sistema educativo ancorato a livelli poco soddisfacenti; lavoro in abbondanza, ma poco qualificato, e sottopagato; infrastrutture vecchie e poco utili, alcune nuove ma ancora incomplete. È l’immagine di un paese che sperava di festeggiare, segretamente infelice, ma ufficialmente gioioso.
L’immagine di David Luiz che esce dal campo chiedendo a ripetizione “scusa” ai tifosi sugli spalti è emblematica. La sua intervista post-partita assume toni drammatici: “Chiedo scusa al popolo brasiliano, non si meritava questo. Volevo che i brasiliani fossero felici, almeno per una cosa.”
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Almeno per una cosa. Non era il popolo più felice al mondo? Quello che abitava in una terra fantastica, benedetta dalla natura, con il mare più bello, le foreste più belle, le donne più belle, tutte le risorse possibili ed immaginabili? Lo è. Lo è ancora.
Eppure la gente piange, e chi non piange è perchè non sa come esprimere il suo stato d’animo di fronte ad una tale disfatta. Piange perchè sentiva questa Coppa già sua, era una grande festa in cui il festeggiato aspetta solo il momento della torta per essere acclamato da tutti. Ma stavolta non ci sarà nemmeno una candelina da spegnere, niente torta, la festa finisce qui. Oppure no?
Il problema è che questa festa il paese l’ha organizzata lui, in casa, e nessuno andrà via finchè non sarà veramente finita, finche tutti non decideranno che è abbastanza, e si può tornare a casa. Il paese ha speso montagne di soldi ed energie per preparare tutto, e però i regali andranno via con qualcun altro.
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Torna alla realtà il popolo brasiliano. “Lunedì mi tocca pure andare a lavorare” mi sussurra una mia amica quando ancora il risultato è sul 6-0 per i tedeschi. In caso di vittoria mondiale, tutti i lavoratori avrebbero avuto una giornata libera, per riprendersi dai festeggiamenti in grande stile. Ma niente. Torna alla realtà questa gente; alla realtà ed ai problemi di cui quest’ultima è strapiena. In lontananza scorgo un ragazzo che viene nella mia direzione. Rimetto il cellulare in tasca. Poco dopo lo sposto ancora, in un posto ancora più sicuro, meno visibile. Gli ultimi metri che mi separano dal cancello sono un campo minato: pozzanghere ovunque, mi tocca saltellare per evitarle. Ah se mi vedeste, sarebbe una scena divertente, ve lo assicuro. Qualcuno in realtà mi sta guardando: il ragazzo di prima, si è fermato e mi guarda. Mi sembra che sorrida assistendo allo spettacolo, ma non posso giurarlo. Almeno qualcuno qui sorride.
Entro in casa ed il silenzio è tombale. Non mi resta che andare a letto, è andata pure la voglia di leggere qualche pagina del libro che ho iniziato ieri. Sono davvero dispiaciuto per tutto questo, è una terra che sento mia e non sono immune dai suoi stati d’animo. Cosa sarà quando il trambusto della Coppa sarà passato? Cosa resterà a questa gente di tutto questo? Lasciate stare i luoghi comuni sulla gente che festeggia mentre c’è chi muore di fame. Qui i primi a festeggiare, in caso di vittoria, sarebbero stati i meno abbienti. Perchè essere felici in questo modo non costa nulla, perchè partecipare alla gioia collettiva è una scorciatoia per sentirsi come tutti gli altri. Perchè prendere parte ad un evento del genere sarà la cosa più straordinaria (nella vera accezione di questo termine, cioè “fuori dall’ordinario”) che accadrà nella vita di molte di queste persone. Per questo una sconfitta ha assunto i connotati di una tragedia nazionale. Per questo si respira un’atmosfera diversa, e domani sarà un giorno come tutti gli altri. È questo che pesa di più, che tutto tornerà ad essere come prima. Che non ci sarà un trofeo da alzare, una festa da metter su, un titolo da portare in giro con orgoglio, in tutto il mondo.
Domani sarà un giorno come tutti gli altri, e dopo la finale, quando la Coppa sarà terminata, anche tutto il resto tornerà alla normalità. Milioni di persone continueranno a spaccarsi la schiena in lavori usuranti per sfamare le proprie famiglie, milioni di studenti riprenderanno a studiare sperando in un futuro migliore, milioni di pendolari aspetteranno autobus strapieni sotto pensiline semidistrutte, milioni di pazienti pregheranno di ritrovare la salute in ospedali vecchissimi, milioni di bambini continueranno giocare con un pallone rappezzato nei campi incolti vicino casa. Insomma, tutto come prima. Ma stavolta con nemmeno un sogno all’orizzonte, nemmeno un’occasione di riscatto, così limpida e vicina come era questa dei Mondiali.
Buonanotte mio Brasile, triste e inconsolabile. Tanto lo so che anche domani riuscirai a trovare la forza di sorridere e andare avanti, in qualche modo, come hai fatto fino ad ora.

Sussurri

Non ho visto tramonti
Ma tante albe.
Ed ogni volta,
Era un miracolo,
Un vagito commovente.

Tre storie che ho ascoltato,
Tre sorrisi sulle mie labbra.
Negargli il primo respiro,
È il delitto che non ho commesso.

Questa vita ha un sussurro per ognuno,
Ed il tuo nome,
Al mio orecchio,
Porta un brivido che mi stende.

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Una casa, un letto e un viaggio

Arriva la fine di certe giornate, sei sdraiato sul letto, le mani incrociate dietro la testa e pensi…

Alle cose che hai fatto oggi, e a quelle che non hai fatto ma avresti tanto voluto. Ai nuovi amici che hai conosciuto e alle cose che avete scoperto di avere in comune nonostante proveniate da posti tanto diversi. Ai vecchi amici, quelli lontani, a cui pensi sempre nonostante vi divida un oceano che tuttavia non può nulla contro la forza di un legame. Alla tua famiglia che aspetta con ansia il tuo ritorno e ogni giorno ti rinnova il suo appoggio, fondamentale per fare qualsiasi cosa.

La sera è il momento ideale per pensare, forse perchè al termine della giornata la stanchezza prende il sopravvento ed allora anche la mente smette di opporre resistenza, con i pensieri che scorrono finalmente liberi da qualsiasi tipo di costrizione. Cosa mi ha portato fin qui? Cosa mi ha trascinato dall’alta parte del mondo? Perchè sono qui sdraiato a ottomila chilometri da casa, a pensare?

É davvero strana questa cosa, questo doversi allontanare tanto dal posto in cui abbiamo aperto per la prima volta gli occhi al mondo, per cercare di vedere in modo più chiaro tanti aspetti della nostra vita. Come quando non si riesce a mettere a fuoco una cosa quando è troppo vicina a noi, così per capire tanti elementi della nostra vita bisogna allontanarsi il più possibile da questei, per scrutarli, analizzarli, considerarli in un altro contesto e vedere se reggono, in quest’altro contesto. Se ancora sono validi, se davvero vale la pena conservarli, se è giusto portarli assieme nel viaggio, a riempire la valigia.

Non è sempre facile e a volte le conclusioni sono dolorose, altre invece le assumi con un sospiro. Di sollievo, di pericolo scampato, con quel retrogusto di “meglio tardi che mai”. Quanto tempo sprechiamo dietro cose per cui non ne vale la pena? A posteriori, cambieremmo sempre il percorso di una storia, ma questo è il bello…a posteriori è tutto più facile, le cose sono già tutte srotolate lì davanti a noi e non è un esercizio impossibile muovere i pezzi, trovare il modo perfetto in cui combinarli. Purtroppo (o per fortuna?) la vita è quella parte del film che ancora non conosci, sono quelle scene che ti auguri di vedere nel prosieguo, ma non sei sicuro che il regista abbia voluto girarle. Sono quegli amori che intuisci quando stanno per sbocciare, e tuttavia non sono ancora così concreti da manifestarsi. Sono quelle indecisioni terribili, o quelle decisioni affrettate, che cambiano tutto, o non lo fanno per nulla. Sono le cose che prevedi in un certo modo e poi avvengono in un altro. La vita sono le parolacce che urli con rabbia, e i bocconi amari che mandi giù a forza. Ma sono anche i sogni che vedi crescere, in quella dimensione fantastica tra la realtà e l’utopia, e oscillare tra l’una e l’altra, tra la loro realizzazione e la loro dissoluzione nel nulla.

Dove sono i miei sogni? Forse dietro la mia testa, dove incrocio le mani mentre sono qui steso, a pensare. Ed ogni volta che li immagino realizzarsi, prendere forma, è proprio in quel punto che sento un brivido, una leggera scossa, una beata confusione. Come qualcosa che si rimescola, e sussulta, e si agita per venir fuori. Sono certo che in tutto questo centri qualcosa il fatto che io sia sdraiato: cuore e testa allo stesso livello, coi pensieri che vanno e tornano dall’uno all’altro…e dell’uno e dell’altro prendono le cose migliori, quelle meno ragionate e più istintive, più felici.

Mi accarezzo la nuca, con una mano e poi con l’altra. Sono al sicuro i miei sogni, su questo letto, mentre io sono steso, ad un oceano da casa. A un continente dai miei affetti. Ad un’eternità dall’altro me, quello precedente.

Quel giorno che ho preso il largo, sapevo che avrei visto il meraviglioso spettacolo del mio porto sicuro, una volta giunto in mare aperto.

 

 

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