Lettere da Lisbona #2

La sveglia del cellulare oggi mi sembra meno fastidiosa del solito. Apro gli occhi e subito me ne accorgo: c’è il sole!
Finalmente, dopo giorni di pioggia, il fine settimana si preannuncia splendido.
Mi vesto velocemente, afferro un panino dal bancone dove viene servita la colazione e cinque minuti dopo sono già per strada.

Ho sbagliato a mettere il piumino, il sole scalda per davvero. Lo tolgo e lo metto sotto il braccio, le mani in tasca mentre attraverso la piazza su cui si affaccia la stazione di Rossio.
Tanta gente in giro, tante lingue diverse, tante facce meravigliate. Lisbona è una città che non ti aspetti. Non è una meta ambita, non è la città preferita dagli italiani all’estero, non è il centro di nulla, non è.
E allora perchè non riesco a smettere di incantarmi mentre cammino? Sento il cellulare vibrare nella tasca dei jeans, ma lascio perdere. Risponderó dopo.

Mi infilo in questa strada lunga, dritta, quasi infinita, la Rua Aurea. C’è il sole che ci cade dritto sopra e rovescia secchiate di luce, facendola scintillare quasi come un fiume d’oro fuso. Là in fondo si intravede il fiume ed è lí che voglio arrivare.
Un palazzo dopo l’altro, particolari facciate ricoperte di mattonelle smaltate: spettacolari geometrie, incredibili addobbi sul cemento spesso troppo triste delle città. Ogni finestra, ogni balcone è un quadro incorniciato da queste splendide tessere colorate. Come in un museo cammino facendo attenzione ad ogni particolare, per non perdermi nulla.
E come in un museo, alla fine arrivo all’uscita.
Splash.

È un tuffo.
La via sfocia in una piazza immensa, una sorta di bagno di luce, e aria, e immenso. Oltre la piazza il fiume disteso come un gigante, che soffia su di essa tutti i suoi odori, i suoi profumi segreti.
Praça do Comercio sembra fatta apposta per ridimensionare le persone e farle entrare in un’altra dimensione, in un altro tipo di rapporto con la realtà che le circonda. Se nella Rua Aurea avevo camminato assorbendo il fascino della città, qui mi sento totalmente assorbito.
Un punto nello spazio. Piccolo ma non inutile. Sono parte di qualcosa, la mia esperienza è parte di un viaggio collettivo. Ne trovo traccia nelle persone che a qualche metro da me scattano rumorosamente una foto dopo l’altra. Nel signore anziano e un po’ gobbo che vende castagne arrostite in un angolo della piazza. Nel ragazzo ritto in piedi, dall’altro lato di questo campo di luce, che si ferma un attimo per guardarsi attorno; poi tira fuori una mappa dalla tasca posteriore dei pantaloni. Un’occhiata e prosegue.
Sono io? Si, sono io.

Il bordo inferiore della piazza confina col fiume grande quanto il mare. E una scalinata si immerge nell’acqua, un gradino dopo l’altro, tra due colonne di pietra che sembrano poste all’ingresso di un mondo nuovo e fantastico.
Scendo sui gradini, fin quasi a finire con i piedi nell’acqua. Passano due barche a vela, in lontananza una nave mercantile è ormeggiata nel punto in cui il fiume si mescola col mare, mentre ci fa all’amore.
Verso di me avanza un battello turistico, che fa la spola tra una sponda e l’altra di questo fiume che si dilata per somigliare ancor piú al suo amante d’acqua salata.
Ho tutta la città, e forse un intero continente, alle mie spalle. E tanto, ancora un’immensità davanti a me. La sensazione di essere al limite, di camminare sul confine tra due mondi, entrambi possibili, e ognuno giusto, a suo modo…mi fa scendere una lacrima. Scende veloce sulla guancia e cade giú. Ne avverto il ticchettio sulla pelle scura della scarpa destra. Un attimo dopo è un’onda piú forte delle altre a sfiorarmi i piedi. E la mia lacrima viene catturata dal fiume che subito si ritrae, vittorioso.
Se la porta via, e poi con un gesto furtivo la passa al mare che presto la nasconde negli abissi.
Dove sarà adesso? Ed io, dove sono? Ancora sul limite, oppure già in viaggio?
Una nuvola, di passaggio, spruzza ombre sull’acqua tormentata e poi irrompe sulla piazza.
È tempo di infilarsi nuovamente il giubbotto.
Mani in tasca, imbocco la strada alla mia destra che costeggia il fiume, mentre continuo a guardarmi attorno.
Non ho ancora smesso di cercare. Di cercare di capire.

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